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Bestiari, Erbari, Lapidari: il documentario “enciclopedia” che osserva il mondo in cui viviamo #adessonews

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Un film-saggio diviso in tre atti osserva il mondo naturale esplorando i territori abitati da animali, piante e pietre. Un documentario-enciclopedia, un lungo viaggio in poco più di duecento minuti di proiezione tra luoghi “vivi” e materiali d’archivio. Dopo la presentazione fuori concorso alla 81esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Bestiari, Erbari, Lapidari arriva in sala il 5 ottobre e sabato 19 sarà presentato dai registi al Lux di Padova. Ogni atto è un omaggio a un genere cinematografico con un tocco personale, una firma degli autori: Bestiari è un found-footage sui modi in cui il cinema ha rappresentato gli animali nel tempo, è un film d’archivio ma diegetico, Erbari è un documentario poetico d’osservazione girato all’interno dell’Orto Botanico di Padova, Lapidari è un film industriale e al tempo stesso sentimentale dedicato alla trasformazione della pietra in memoria collettiva. Per approfondire il progetto, partendo dalla genesi, abbiamo intervistato i registi Massimo D’Anolfi e Martina Parenti.

Come e quando nasce questo progetto, da quali esigenze e con quali intenzioni?

Massimo D’Anolfi: “Per noi un film nuovo nasce dove finisce il precedente, ci chiediamo sempre a che punto sia arrivata la nostra ricerca, al di là del tema. Nel 2020 abbiamo presentato a Venezia il documentario Guerra e pace: era l’anno della pandemia, tornati a Milano abbiamo iniziato subito a pensare a un nuovo progetto. Da tempo volevamo realizzare un lavoro sugli alberi, senza mai trovare le giuste condizioni per sviluppare questa intuizione. Un giorno ci chiama un’amica per informarci che, nell’ambulatorio del veterinario sotto il nostro studio, ci sono due cucciole di tigre con la polmonite. Ci andiamo subito e iniziamo a filmare: la sera stessa capiamo di aver trovato un bestiario, perché lì non c’erano solo le piccole tigri, ma anche cani, gatti, un serpente, un uccellino, un coniglietto, un riccio. Trovati i bestiari sono arrivati gli erbari, con quell’iniziale progetto sugli alberi che doveva tornare, infine i lapidari. Individuato il titolo, abbiamo iniziato a riempirlo. L’Orto botanico di Padova è giunto presto anche se all’inizio tutto era ancora immobile per la pandemia e non ci si poteva spostare, quindi avevamo pensato di realizzare un film più piccolo, girando solo a Milano”.

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Una chiusura forzata che sembrava dover determinare un limite per le riprese. Poi qualcosa è cambiato.

Massimo D’Anolfi: “Quella chiusura ha creato una suggestione importante per il lavoro: l’intuizione delle gabbie. Poco dopo però, ragionando sul progetto in maniera più profonda, abbiamo capito che il film doveva avere un respiro più ampio e superare i confini della città. Così, invece di durare un anno, il lavoro è andato avanti per quattro anni”.


Un film nuovo nasce dove finisce il precedente, ci chiediamo sempre a che punto sia arrivata la nostra ricerca, al di là del tema

Massimo D’Anolfi

Come si colloca la figura umana nei tre atti che compongono il documentario? Personalmente ho notato una sorta di evoluzione dal punto di vista della consapevolezza e della cura del mondo naturale.

Massimo D’Anolfi: “All’interno del nostro film l’essere umano compie un viaggio. Forse più di uno. In Bestiari, Sophia Gräfe e Francesco Pitassio studiano e interrogano il materiale del cinema delle origini permettendo, anche a noi spettatori, di entrare in quell’archivio immenso attraversato dal cinema, dagli animali e dall’uomo. In Erbari la figura umana va considerata su più livelli: quello della cura paziente delle piante, quello della voce di Stefano Mancuso, che arriva da una radio, mentre il lavoro di giardinieri e ricercatori continua, e quello definito dall’erbario di guerra, con il botanico-soldato che non c’è più ma è comunque presentissimo. In Lapidari non ci sono parole: qui le pietre di inciampo ricordano migliaia di persone che hanno perso la vita in guerra, sotto i bombardamenti o nei campi di sterminio”.

Gli atti sono indipendenti ma dialogano tra loro, esiste un filo rosso.

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Martina Parenti: “Certamente, con gli erbari di guerra, la voce umana, il ginkgo di Hiroshima, le connessioni ci sono tra tutti gli atti: tra il secondo, che si conclude con l’erbario del soldato Bruno Ugolini, e il terzo, per ritrovare la memoria delle vittime dei conflitti, e prima ancora, tra Bestiari ed Erbari, il primo finisce con gli animali scomparsi che vogliono rinascere e il secondo si apre con i vecchi alberi nella neve e animali presenti ma non visibili”.

Come si colloca il documentario-saggio nel panorama cinematografico?

Massimo D’Anolfi: “Noi interroghiamo sempre noi stessi e il mezzo che usiamo, il cinema, cercando nuovi modi di raccontare. Crediamo che il cinema sia un mezzo potentissimo, è un’arte giovane con un enorme potenziale di indagine e tante possibilità di sperimentazione. Il nostro film dura tre ore e mezza, è vero, ma il cinema non è solo quello commerciale e d’intrattenimento. Ci si può concedere il tempo e lo spazio per visioni diverse. Non siamo partiti con l’idea di fare un film lungo, abbiamo iniziato a lavorare e ne è uscito un disegno drammaturgico unico in cui, in realtà, i singoli atti sono anche brevi e conclusi in sé ma la potenza che sprigiona la visione d’insieme è un’altra cosa”.

Martina Parenti: “Il cinema ha condotto tante e interessanti sperimentazioni: Decalogo e Heimat, per esempio, sono film lunghissimi e si possono vedere in vari modi. Mi sembra che ad appiattirsi sia il presente perché il modo di vedere le immagini si è impoverito, prima era accettata l’idea di un cinema che non fosse solo d’intrattenimento. Aggiungo che un documentario come questo permette di posare uno sguardo nuovo sulle cose comuni, è apertura ed è condivisione di punti di vista differenti”.

Massimo D’Anolfi: “Con la pandemia le persone hanno utilizzato sempre di più dispositivi piccoli, come pc e smartphone, per vedere serie tv e film, ma forse ora la sala cinematografica – potendo contare sul grande schermo e un buon audio – può tornare a essere luogo privilegiato per fare esperienze diverse e potenti”.


Noi interroghiamo sempre noi stessi e il mezzo che usiamo, il cinema, cercando nuovi modi di raccontare

Per quanto riguarda la ricerca sul materiale d’archivio quali sono state le maggiori difficoltà che avete riscontrato?

Martina Parenti: “Abbiamo potuto contare sull’aiuto prezioso della Cineteca svizzera e Eye Filmmuseum di Amsterdam. Per la parte di archivio più vasta, quella relativa ai Bestiari, ci ha guidato sin dall’inizio il saggio di Berger, Perché guardiamo gli animali, e l’idea delle gabbie: negli anni Settanta Berger vedeva negli zoo la fine della relazione spontanea uomo-animale. A questo si è aggiunto l’incontro con Sophia Gräfe e Francesco Pitassio: loro hanno portato altro materiale per il primo atto. Il resto l’abbiamo portato noi. Per gli Erbari il discorso è diverso: l’archivio è un segreto custodito nei libri dell’Orto botanico. Per Lapidari abbiamo ripreso gli archivi dei vigili del fuoco, sui crolli delle case, già consultati per Guerra e pace, e a questa ricerca abbiamo affiancato una riflessione sulla costruzione e distruzione del cemento”.

Massimo D’Anolfi: “Alcune idee ritornano per rivelarsi nei nostri film a distanza di tempo: l’associazione è un metodo, l’altro è quello della ricerca pura che certamente presuppone delle intuizioni, come quella delle gabbie di cui abbiamo già detto, ma impone anche dei limiti, necessari a indirizzare il nostro lavoro di indagine. Abbiamo individuato e poi sviluppato l’idea dell’animale intrappolato, nella gabbia e nel frame cinematografico”.

Nelle vostre opere emerge lo sguardo del cinema sul mondo e le sue dinamiche: in Spira mirabilis, in concorso a Venezia nel 2016, veniva esplorato il concetto di immortalità, in Guerra e Pace la morte e la violenza. In questo ultimo lavoro il cinema cosa osserva?

Martina Parenti: “Osserva ciò che ci circonda, considerandoci parte di quello che ci sta attorno, del mondo in cui viviamo. La natura è il cuore. Pur avendo già addomesticato tutto, noi dobbiamo comunque continuare ad averne cura”.

Massimo D’Anolfi: “Concludo dicendo che questo è anche un film su un riposizionamento dell’essere umano, perché noi siamo di passaggio, siamo solo uno dei tanti elementi che compongono la vita”.





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