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Riprogrammare – la Repubblica #adessonews

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Chiodo in centralina, tra Termini e Tiburtina. L’amica che a due ore dalla partenza ha ricevuto da Trenitalia la comunicazione che il suo treno è stato soppresso mi racconta che l’impegno di lavoro per cui stava per sobbarcarsi quattro o cinque buone orette ferroviarie forse non salterà ma verrà “riprogrammato”. Credo non si sia accorta di aver così usato proprio il verbo che la compagnia ferroviaria le ha appena rivolto: “Si invitano i passeggeri a riprogrammare il viaggio”. Alle mode lessicali non si aderisce quasi mai per convinzione: sono corpuscoli presenti nell’aria, a cui reagiamo per riflesso condizionato, granelli di polvere piccante che ci inducono a starnutire. Ti dicono “riprogramma”, e tu riprogrammi. Noto la ricorrenza della parola e sento una radiolina interiore proporre una versione leggermente ritoccata di quella celebre hit di Adriano Pappalardo. Ricominciamo, riprogrammiamo.

È probabile che “riprogrammare” sia uno di quegli anglismi occulti, derivati da traduzione o calco di espressioni che si trovano a percolare nell’uso italiano per il tramite di riunioni internazionali, nell’aziendalese globalizzato. Siamo lontani dagli orrori del “briffare” e “cringissimo”, ma anche discosti da fastidi meno acuti, come per il “processare” nel senso di “elaborare”. No, qui abbiamo espressioni che la grammatica e il vocabolario italiano conoscono e accolgono, niente da ridire. In fondo fra “Non esitare” e “Non farti di scrupolo” (in frasi come: “Se hai bisogno non farti scrupolo /non esitare a contattarmi”) non c’è grande differenza, se non che la seconda era da tempo comune nell’italiano standard mentre la prima ha cominciato a prevalere negli ultimi tempi. Ipotizzo che “riprogrammare” sia l’adattamento italiano dell’inglese “to replan”, visto che “ripianare” è improponibile e “ripianificare” faticoso. Ma oltre che alla schiera degli anglismi non vistosi, “riprogrammare” si iscrive in un’altra lista: quella delle espressioni mantecanti.

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La manteca è il burro in spagnolo ma in italiano designa quel grado omogeneo di cremosità che si ottiene specialmente al termine di preparazioni come il risotto. Il suo perfezionamento è funzione del grado di cottura, degli ingredienti, dell’abile opera amalgamante, del giusto tempo che si lascia al composto per riposare. Sono, queste ultime, anche operazioni di tipo retorico o meglio semiotico. Quando l’ingrediente sono i messaggi da comunicare ai viaggiatori ferroviari, per esempio, la cucina serve ricette sicure, affinate in anni. Ci sono i messaggi sull’allontanarsi dalla linea gialla quando un treno è in arrivo, o il divieto di attraversare i binari (“servirsi dei sottopassaggi”), mentre da molti anni non abbiamo più notizie dell'”Operaio Verifiche” che negli anni Settanta-Ottanta veniva spesso pregato di recarsi a un dato binario, e capitava in tutte le stazioni (fu così che capii che “Verifiche” non era il cognome). Questo genere di messaggi è il corrispondente dei generi alimentari che fanno parte dell’allestimento del tavolo, cioè del “coperto”: i grissini delle ferrovie. Altri piatti sono sempre in menu: moniti di non lasciare bagagli incustoditi, e lasciar scendere i passeggeri in arrivo prima di accedere alla carrozza.

Questi non hanno bisogno di alcuna mantecatura, che invece è necessaria nei piatti più raffinati, a volte cucinati espressi con gli ingredienti offerti quel giorno dal mercato. Un buon grado di mantecatura lo si è apprezzato quando i volgari ricorsi alla nozione di ritardo, salsa pronta e subito acida, sono stati sostituiti dal giro di parole del “maggior tempo di percorrenza”. Un paio di girate di mestolo ed ecco che la perdita del ritardo si è voltata in una cremosa opportunità: non dice il saggio che più che la metà conta la percorrenza? L’invito a “riprogrammare” è un’operazione semio-culinaria della stessa natura, garbatamente, si può dire doverosamente manipolatoria. Voi avevate un programma, ora avete l’occasione di ripensarci, riformularlo, magari migliorarlo. Cosa sarebbe un viaggio, senza un imprevisto? Un mero spostamento. Se siete pendolari, è alienante la ripetizione nipponica del solito treno, alla stessa ora, stesso minuto primo e secondo, fermo nello stesso preciso punto della banchina. Riprogrammare è aggiornare il software.

Non fermatevi a pensare alle ragioni per cui avreste desiderato che il vostro treno fosse quasi in orario, nei casi estremi esistesse effettivamente. Ci possono essere stati ritardi o problemi nella preparazione del materiale rotabile, guasti nella linea, presenza sulla linea di persone estranee, astensioni dal lavoro del personale viaggiante, degli addetti alle pulizie, di chiunque altro, o anche negate autorizzazioni ad accedere alla stazione o a lasciarla, mancato arrivo di un treno corrispondente… . Nella cucina, subito dietro al microfono degli annunci, si abbassa il fuoco, si aggiunge manteca, si mescola delicatamente. Riprogrammiamo, ricominciamo, non muore mai nessuno, è tutto sempre un nuovo inizio. Ma ottenere una mantecatura ideale non è alla portata di tutti: occorre innanzitutto avere il predominio pragmatico, cioè la posizione prevalente che decide. Se lo chef non dà il via libera, il risotto a tavola non arriva e quelli a tavola aspetteranno ancora, riprogrammando il loro appetito. E così capita con il treno: e a noi, quelli sui marciapiedi delle stazioni.


Questa è Lapsus del 6 ottobre 2024, la rubrica di Stefano Bartezzaghi sulle parole del momento

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