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Da un’indagine emerge che quasi la metà del campione ha memoria dei piatti di pasta preparati da nonne o mamme alla tenera età di 4 anni, proprio nel periodo in cui si inizia a sviluppare la memoria permanente e ci si avvia a conservare ricordi incancellabili per tutta la vita

Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola

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Per tutti quelli che «non mi ricordo cosa ho mangiato ieri…»: ebbene, magari effettivamente non ricordate quello che avete mangiato ieri ma quello che mangiavate a 4 anni, sì, ed è la pasta! La pasta è tra le prime memorie alimentari di cui abbiamo traccia: il piatto fumante che ci aspettava a tavola quando eravamo piccoli rimane impresso in maniera indelebile tra i ricordi di quasi tutti gli italiani.

A rivelarlo è uno studio svolto dall’istituto di indagine Doxa per Aidepi, l’Associazione delle Industrie del Dolce e della Pasta Italiane. L’analisi, condotta su un campione rappresentativo di 1.000 italiani di età superiore ai 15 anni, ha evidenziato come per l’88 per cento (9 su 10) il primo ricordo di pasta sia antecedente agli 8 anni mentre il 46 per cento lo colloca addirittura a prima dei 4 anni.

La memoria del gusto

A causa della cosiddetta amnesia infantile, abbiamo poca o nessuna memoria di ciò che ci è accaduto prima dei tre anni e mezzo di età. Secondo le neuroscienze infatti è dopo i tre anni che lo sviluppo cerebrale elimina i ricordi più antichi per fare spazio a nuove esperienze.

Ecco quindi che iniziamo a collezionare ricordi che ci accompagneranno per tutta la vita e in cui possiamo rifugiarci per rievocare sensazioni piacevoli che difficilmente potranno essere eliminate. Questi ricordi poi possono essere innescati da situazioni particolari, da persone, luoghi, odori e sapori, ed è quello che accade per la pasta.

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Dall’indagine emerge che quasi la metà del campione ha memoria dei piatti di pasta preparati da nonne o mamme alla tenera età di 4 anni, proprio nel periodo in cui si inizia a sviluppare la memoria permanente e ci si avvia a conservare ricordi incancellabili per tutta la vita. Quello che biologicamente accade è che l’assaggio della pasta in età giovanissima trasmette un impulso all’ippocampo, la parte dell’encefalo che funge da magazzino delle memorie, l’ippocampo lo conserva e lo tira fuori in tutte le occasioni in cui viene evocato. Secondo la Tufts University del Massachusetts, i carboidrati infatti sono il combustibile del cervello e hanno un impatto positivo sul consolidamento della memoria e sulla concentrazione.

Il pranzo

Significativo inoltre è il dato secondo cui gli italiani associano il ricordo della pasta a un particolare momento: il pranzo della domenica. A lasciare un segno permanente nella memoria dei bambini sono quei momenti felici e di sicurezza del pasto domenicale. Proprio come in amore, anche per la memoria del gusto il coinvolgimento emozionale gioca un ruolo fondamentale nelle preferenze alimentari.

È stato infatti dimostrato che il contesto in cui si consumano i pasti ha una forte influenza: ciò che si mette in tavola contribuisce sì a creare corrette abitudini alimentari, ma anche altri aspetti sono altrettanto rilevanti. Per esempio la gestione dei capricci e l’evitare discussioni a tavola sono fattori che incidono sul ricordo di un pasto. Quindi, ciò che rimane impresso nella mente e sul palato non è solo il sapore del cibo, ma anche il tempo dedicato a cucinarlo, i riti e le cerimonie che accompagnano ogni piatto. E nel caso specifico della pasta, la scena è particolarmente ricca, con elementi come il mattarello, lo scolapasta e lo spaghetto arrotolato o che penzola dalla boccuccia.

Il pomodoro

E non sarà certamente un caso se il piatto di pasta più ricordato dagli adulti di oggi è la pasta al pomodoro. Un’esplosione di sapori tanto semplice quanto capace di rimanere ben salda nel vissuto delle persone e che implica un rituale e un memoriale che continua a farci sognare anche da grandi. Poi, se si è di Napoli (come chi scrive, o meglio di Gragnano, capitale europea della pasta), la pasta al ragù della domenica porta con sé un turbinio di ricordi e di sapori che evocano famiglia, nonni, tavole imbandite e tovaglie ricamate, dal ritmato sbuffare del sugo in pentola – perché il vero ragù partenopeo deve “pippiare” cioè deve cuocere a lungo, lentamente – all’inconfondibile “musica” degli ziti che si spezzano nella zuppiera, pronti per essere cotti.

E tutta questa scenografia visiva, gustativa e olfattiva, non può che non rimanere impressa nella mente di un bambino. A tutto ciò poi, va associato il fatto che mangiare la pasta fa sentire di buonumore perché facilita l’assorbimento del triptofano, un amminoacido precursore della serotonina, il cosiddetto ormone della felicità (come scrive anche The Lancet Public Health). Ma questo accade da piccoli come da adulti, al nord come al sud.

Non dimentichiamo infine che, se è vero che il senso del gusto si educa nei primi anni di vita, è vero anche che il gusto si forma nel pancione. Il gusto del bambino, insieme all’olfatto, inizia infatti a formarsi nel grembo materno già dal quarto mese di gravidanza. E sebbene sia influenzato dal patrimonio genetico, viene modellato anche dalle abitudini alimentari della madre durante la gestazione e successivamente durante l’allattamento. Ora, considerando che ogni italiano consuma in media circa 23 chili di pasta all’anno, non sorprende che la “voglia di pasta” sia un elemento essenziale della nostra “programmazione” fin dal principio.

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