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Quando finisce un amore: cosa dice la letteratura? #adessonews

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“Quando finisce un amore” è il titolo di una celeberrima canzone di Riccardo Cocciante (che peraltro tra poco più di una settimana farà un’unica data, all’Arena di Verona, dopo quindici anni di silenzio, in occasione dei cinquant’anni di Bella senz’anima) ma è anche il titolo di uno dei trecento incontri di Pordenonelegge, importantissimo festival letterario che compie invece, in questi giorni, venticinque anni.

Siederanno uno davanti all’altro, lì, sul palco, due scrittori di fama, Luigi Nacci e Diego De Silva, a raccontare i loro ultimi libri. Per Nacci, I dieci passi dell’addio è l’esordio al romanzo dopo alcuni volumi di versi e dei saggi narrativi, mentre De Silva, con I titoli di coda di una vita insieme, abbandona la serie dell’avvocato Malinconico, tirando fuori dal cappello due personaggi nuovi in una particolarissima condizione esistenziale, un po’ come lo scrittore aveva già fatto con Terapia di coppia per amanti, dove, ad andare dal terapeuta, non erano marito e moglie in crisi ma per l’appunto due amanti che non riuscivano a schiodare la propria situazione coniugale ed emotiva.

Quello che è interessante osservare è che i due scrittori, generazionalmente diversi, in momenti diversi della propria carriera, e ciascuno a modo proprio ovviamente, hanno deciso di affrontare con le armi del romanzo un tema che mai come ora, nel mondo liquido dove tutto appare possibile o inevitabile, s’impone alla letteratura se non altro per la frequenza con cui avviene.

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Uomini e donne si lasciano di continuo. Si lasciano anche se di mezzo ci sono contratti (matrimoni), figli, case, mutui. Anche se si amano ancora. O proprio perché si amano ancora ma non ce la fanno più. E se è vero che la canzone indaga da sempre questa contingenza intrisa di sentimento, la letteratura lo ha sempre affrontato in modo incidentale. Nei romanzi i personaggi si amano, si prendono e si lasciano in funzione della storia che il narratore ha l’esigenza di mettere sulla pagina. Ora, invece, come nel caso di De Silva e Nacci, il tema viene dissezionato in modo quasi programmatico, pur facendo letteratura beninteso.

Nel 2018 un autore spagnolo, Isaac Rosa, in Lieto fine (uscito per Einaudi l’anno scorso) ci è riuscito raccontando una storia d’amore “in rewind”, a partire dalla fine, intrecciando le voci di lui e lei e permettendo così a chi racconta, sapendo come è andata a finire, di capire meglio, forse, le ragioni dell’avvicendarsi degli eventi e dell’evoluzione dei sentimenti. Qualcosa del genere ha tentato anche Yari Selvetella ne Le regole degli amanti (Bompiani, 2020) in cui, dandosi un decalogo, i due protagonisti hanno tentato di opporsi alla forza livellante del tempo e di mantenere accesa la fiamma e privato lo spazio dell’amore.

Nacci fa lo stesso: identifica i dieci passi che chi sta insieme deve fare per riuscire a portarsi fuori da quel groviglio strettissimo di cose, pensieri, sentimenti, azioni, ricordi, prospettive di cui è fatta una relazione d’amore. De Silva e lui, in questi loro recentissimi romanzi, sono proprio dei teorici dell’amore, potendosi permettere, da scrittori, il respiro profondo della parola e lo sguardo ampio della narrazione per ricostruire un sentire universale.

Nel primo capitolo de I titoli di coda di una vita insieme De Silva scrive: “Io non saprei dire quando è successo. È un mio vecchio difetto quello di cercare una scaturigine degli eventi, come volessi credere che c’è sempre qualcuno o qualcosa a cui dare la colpa, benché sappia (gli anni me lo hanno dimostrato tante volte) che niente è ascrivibile a una sola causa e nulla di ciò che conta davvero si spiega; eppure mi rassicurerebbe individuare un momento preciso, un trauma, uno strappo, una parola fuori posto non particolarmente eloquente ma in grado di accendere una luce sull’irreparabilità delle cose”.

L’essere umano è proprio fatto in questo modo: ha bisogno di capire, anzi, di più, di raccontarsi una storia. In una recente conferenza sull’istinto del narrare tenutasi nell’Abbazia di Badia Polesine, Emanuela Canepa, interrogata sul significato di questa particolare propensione attribuibile agli scrittori, spiegava che, invece, secondo lei è un’inclinazione dell’essere umano tutto e portava proprio, come esempio, la fine delle storie d’amore. La domanda più frequente, e ripetuta ossessivamente, diceva, è: dimmi perché. Dobbiamo raccontarci una storia anche quando non c’è più niente da fare. Non si farebbe prima a chiuderla rapidamente e ricominciare senza star troppo a cercare ragionevoli spiegazioni? No: che non ci sia più futuro non significa che non ci sia più niente da dire, anzi. Lo dimostrano proprio questi romanzieri, capaci di intessere la tela della fine. Ecco perché il ghosting è un male che mette in grave difficoltà chi lo subisce. La vittima non riesce a costruirsi quel racconto che gli sarebbe necessario per elaborare il lutto della separazione. Ill “dimmi perché” lo mettono in fila, facendo letteratura, Nacci, Rosa, De Silva (e tanti altri) permettendo al lettore di ritrovarsi in una storia d’altri che è però incredibilmente somigliante alla propria, ma fanno invero molto di più. Nel raccontare il disamore, ci mostrano cosa l’amore sia.

Scrive Nacci: “L’amore non sta in un contratto. Non scende a patti. Non c’entra con gli umani. C’entra con il tempo, con Dio, con la vita e con la morte, con le cose molto più grandi di noi, così grandi che non possiamo maneggiarle. L’amore è, e basta. È dappertutto. È infinito. È incomprensibile: quando entra in noi e ci pervade non capiamo più niente. Perdiamo oggetti, perdiamo interesse per il lavoro, per tutte le altre persone che non sono quella persona lì, solo quella lì. Dimentichiamo le faccende pratiche dei giorni feriali. Perché l’amore fa diventare festivi i giorni feriali”.

E allora perché l’amore finisce? E dove finisce il mondo che quell’amore ha costruito? Ed è possibile che la persona che più abbiamo avuto vicina diventi un estraneo, viva altrove, esista senza di noi? Come faremo a restare? Come faremo ad andare? Ci dovremo odiare? Dovremo uccidere quello che, quest’amore ormai finito, ha generato? Ma è davvero finito? E cos’è la fine? Un nuovo inizio? Sarebbe potuta andare diversamente?

Nacci e De Silva declinano le risposte a queste domande generandone un’infinità di altre e mostrandoci quanto di umano e di imperfetto ci sia nel nostro compito di esistere.

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“Il mancato appartiene al vissuto” scrive De Silva.

“Era già tutto previsto” cantava Cocciante raccontando di lei che s’innamora di un altro, come prima s’era innamorata di lui.

Ciclico, inevitabile, universale, l’amore e la sua fine trasfigurano in letteratura, regalandoci spesso, come nel caso di questi due autori e delle loro ultime fatiche, davvero grandi pagine.


Il mancato appartiene al vissuto

Diego De Silva





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