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Roma in mano agli stranieri: risparmiare non vincere, così ti licenzio De Rossi. Che ne sanno gli americani, anzi gli statunitensi, che cosa vuol dire romanità? Che possono capire cittadini di New York o di Washintgon che vuol dire essere romani e romanisti?
Non hanno nel cuore la passione e il cuore per una maglia. Un tifoso giallorosso salta magari una pizza con gli amici, ma risparmia i soldi per andare a vedere la partita.
Inoltre cosa possono comprendere di un ragazzo nato a roma che a 20 anni gioca allo stadio Olimpico dinanzi alla gente di Testaccio o di Trastevere con cui prima stava in curva sud a soffrire per i suoi campioni?
I nuovi padroni della Roma
Ne siamo sicuri: questi dirigenti non possono entrare nella mente di quell’atleta che ha vissuto più di cinque lustri all’ombra di Trigoria.
Per tutti questi motivi non si può giustificare il presidente Dan Friedkin e il suo comportamento nei confronti di Daniele De Rossi, da nove mesi il mister della Roma.
Lo avevano scelto per furbizia, perché quando era stato licenziato Mourinho (idolo della folla) si temeva una grande dimostrazione di protesta dei tifosi: dai Parioli alla Garbatella.
Un parafulmine, come ha giustamente rilevato Francesco Totti in una recente intervista in cui metteva in mostra gli errori multipli della società: dalla cessione ai frettolosi acquisti di cui il mister sapeva ben poco.
Il parafulmine non c’è più
Stavolta, il parafulmine non c’è più, è stato cacciato inmalomodo come un raccoglitore di pomodori che strappa la vita per una manciata di euro. Senza preavviso.
La mattina del lunedì, alle 8,30, quando De Rossi era già a Trigoria per preparare l’allenamento, è stato convocato negli uffici della presidenza. Poche parole, forse nemmeno una stretta di mano.
“Lei da questo momento, non è più il nostro allenatore. La ringraziamo per quel che ha fatto, però la nostra scelta è diversa”. Ipse dixit
Si deve aggiungere che in quella stanza, oltre al presidente, era presente anche la CEO della Roma, la signora Lina Souloukou, greca di nazionalità. Quell’acronimo vuol dire amministratore delegato, ma è più chic chiamarlo con quelle tre lettere (ca va sans dire). Bene, l’alto dirigente in gonnella non è italiana, naturalmente, e per lei vale lo stesso discorso che abbiamo fatto per Dan Friedkin. D’accordo per la risoluzione immediata del contratto. Anzi felice, visti i “consigli “che aveva comunicato qualche giorno prima al mister. “Mi raccomando, non far giocare più di quattordici volte Dybala, altrimenti gli scatta il rinnovo automatico peri il prossimo anno”.
Se la Roma aveva bisogno di lui come il pane; se quando era assente si notava la differenza della squadra in campo chi se ne frega: l’importante era risparmiare anche a costo di una sconfitta.
Questo è dunque il prezzo che si deve pagare a uomini o donne stranieri che dirigono una nostra società.
E’ il calcio moderno, bellezza. Al vertice di un’Inter, di un Milan, di una Juventus può esserci un americano, un emiro, un giapponese o un cinese.
I tempi di Moratti, di Viola, di Sacerdoti o anche del più recente Lotito, sono andati a farsi friggere al pari dell’italianità delle formazioni.
Come erano belli i giorni in cui in campo scendevano solo ragazzi nati a Cuneo come a Caltanisetta, a Busto Arsizio come a Vibo Valentia.
Quei giovanotti felici, potevano indossare la maglia della società e poi, se bravi, quella azzurra. L’orgoglio non mancava mai e nemmeno il rispetto.
Oggi, invece, si può guadagnare qualche soldo in più, ma hai la stessa sicurezza di una collaboratrice domestica a cui deve dare quindici giorni di preavviso per mandarla via.
Per De Rossi, al contrario, sono bastati due minuti.
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